Ci sono libri che, per un motivo o per un altro, vorremmo comprare appena ne sentiamo parlare. Sarà la copertina, sarà la trama, sarà la bizzarra energia che muove la vita e ci attrae verso qualcosa. Chissà. Per me, comunque, Randagi significava andare sul sicuro. “Vedrai che mi piace”, mi ero detta. “Vedrai che fa per me.”

Non vorrei gufarmela, ma Randagi è stato per me il libro delusione dell’anno. Ma non è un brutto libro, e questo vorrei che fosse chiaro. Semplicemente non sono riuscita a empatizzare con nessun personaggio, né a entrare nella storia. Succede. Ma andiamo per gradi.
Pietro Benati cresce con il fantasma di una maledizione di cui è vittima la linea maschile della famiglia: a un certo punto della loro vita, infatti, scompaiono. Lui ha la musica, una scomoda timidezza e un fratello perfetto a cui guardare. Randagi racconta della sua crescita nei difficili territori della famiglia, delle amicizie, della delusione e del lutto. Sotto il cielo di una Pisa e una Madrid a cavallo tra gli anni Novanta e i primi del Duemila, lo fa con una scrittura fluida, che ci riporta ai toni e ai modi conosciuti e bazzicati da Sandro Veronesi, uno degli autori che più ammiro.
Se dovessi definire in una parola questo romanzo, credo che sceglierei “denso”, ma di un denso che soffoca: il lettore, tante sono le informazioni, fatica a respirare, finendo così per perdere, tra il marasma di fatti e dettagli irrilevanti, anche la storia di Pietro. È questo che più mi ha impedito di sentirla mia: in un continuo sballottamento tra i vari personaggi, io mi sono persa nelle storie. E i randagi di cui parla Amerighi, purtroppo, non li ho né visti né percepiti.
Capita: uno si fa delle aspettative e poi, pagina dopo pagina, se le vede crollare davanti. Ci sono rimasta male, non me lo aspettavo. Però è andata così. Complice il suo non essere un libro breve – 400 pagine – e la confusione in cui è immerso, ripeto, non me lo sono goduto. Curioso notare che, almeno secondo me, Amerighi quando parla è un’esatta copia del suo romanzo: salta di palo in frasca e associa elementi difficili da allacciare tra loro, rendendo arduo seguirlo.
Ma non posso dirvi che non valga la pena essere letto, né che non possa piacervi. Di sicuro serve armarsi di pazienza e voglia di essere trasportati da un fiume pieno di ciottoli, sabbia, girini, acqua, foglie, rametti e antenne di insetti. Poi serve abbandonarvisi, ma occhio: è un romanzo molto maschile, e per quanto non ci veda niente di male, può non essere facile da decifrare.
Posso però consigliarvi un libro molto simile, scritto con una linearità che fa sì che la storia riesca ad arrivare al dunque, e anche al lettore. Sandro Veronese ne Il colibrì, vincitore del Premio Strega 2020, riesce a fare proprio questo, e la scrittura, una delle migliori, a mio parere, nel panorama italiano, è un piacere da farsi scorrere sotto gli occhi. Che Randagi vi abbia deluso o via sia piaciuto, un occhio a questo lo butterei.
A presto,
g
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