
“In che razza di ridicolo impiccio era andato mai a cacciarsi, tutto perché non era capace di bastare a se stesso.”
Quando Giovanni Drogo viene assegnato alla Fortezza Bastiani, rimane interdetto: è sperduta tra le montagne e appena arriva vuole subito andarsene. Gli dicono che sarebbe meglio aspettasse qualche mese, che andarsene con la scusa di essere malato è meglio che fuggire. Così rimane. C’è qualcosa, comunque, nel silenzio e nell’attesa infinita che circonda la Fortezza, che lo incuriosisce.
La speranza che lega chi rende servizio alla Fortezza è quella di vedere il nemico spuntare oltre il deserto dei Tartari. Antico popolo, i Tartari, ma battagliero: non si deve mai abbassare la guardia. E così Drogo, fastasticando sulla vita in città, rimane più del tempo che si era prefissato. Oltre l’orizzonte, il nemico potrebbe spuntare in qualsiasi momento.
Strano libro, Il deserto dei Tartari. Il tempo è il protagonista indiscusso: tempo che sembra infinito, tempo che passa, tempo che imprigiona. Tempo che, invisibile, illude e inganna. E poi attese, attese, attese; quant’è bello pensare a un futuro diverso, una promessa lontana. Quant’è dolce pensarsi fuori dalla Fortezza Bastiani.
La lettura di questo libro è stata difficile per due motivi:
1) Ho pensato alle mie prigioni fin dal momento dell’arrivo di Giovanni alla Fortezza. La depressione, l’anoressia, le regole ferree dentro cui nuoto per sentirmi al sicuro. E poi, ancora: Firenze, la mia prigione d’eccellenza;
2) Nel pensarle, mi sono ricordata della difficoltà di uscirne. Perché nel male c’è chi impara a star bene, e quanto è difficile separarsi dal dolore.
Più la storia scorreva, più la ferita si apriva. Per questo ho voluto che finisse in fretta, che il nemico sopraggiungesse davvero. Per fare cosa, poi? Per continuare con le mie prigioni? Sì. Forse è questo, l’uomo di oggi: dipendente da fuori perché dentro non si basta.
Avete letto Il deserto dei Tartari? Cosa ne avete tratto? Anche a voi ha risvegliato ricordi lontani?
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